In buona sostanza, il TS di Venezia ha ritenuto che, secondo un condivisibile approccio sostanzialistico, la Corte CEDU abbia riconosciuto che istituti, pur non formalmente classificati come penali e inseriti nel contesto della normativa di matrice penitenziaria, non possono essere considerati alla stregua di mere modalità di esecuzione della pena, e dunque essere sottratti al principio di irretroattività, qualora incidano su quest’ultima in termini di sostanziale modificazione quantitativa ovvero qualitativa della pena stessa.
La diversificazione del trattamento sanzionatorio, attraverso l’introduzione del sistema delle misure alternative, ha inciso profondamente sulla natura stessa della pena, che ora, da detentiva, può diventare non detentiva, con una sostanziale decompressione della libertà personale rispetto alla prospettiva dell’esecuzione della pena in carcere.
Una eventuale modifica normativa (o giurisprudenziale) sopravvenuta, che operi in senso restrittivo sulla disciplina che stabilisce presupposti e condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione, incide, quindi, sul profilo di garanzia coperto dall’evocato art. 7 CEDU, poiché essa viene a modificare la natura stessa della sanzione penale applicata, escludendo ora per allora che pene relative a determinati reati possano essere eseguite con tipologie di pene diverse dalla detenzione in carcere.
Del resto, anche nella prospettiva della Corte Costituzionale (sent. 349/1993), le misure alternative partecipano a caratterizzare la natura stessa della pena, proprio per il loro differente coefficiente di afflittività: esse, pertanto, sono alternative non alla pena in generale bensì alla pena detentiva, trattandosi di diverse forme di penalità.
Per queste ragioni, è chiara la distinzione tra mere modalità esecutive della pena (quali, per esempio, i permessi premio e i benefici concedibili dall’Amministrazione Penitenziaria) e misure alternative ad essa: queste ultime, infatti, comportando un – seppur temporaneo – totale o parziale distacco dal carcere e, quindi, modificando il grado di privazione della libertà, devono considerarsi misure di natura sostanziale che non possono, pertanto, essere adottate al di fuori dei principi di riserva di legge e di riserva di giurisdizione, indicati dal secondo comma dell’art. 13 Cost.
Appare difficile, secondo il TS di Venezia, alla luce di tale quadro, continuare a seguire l’affermazione della giurisprudenza di legittimità per cui si tratterebbe, in tali ipotesi, di norme processuali, non afferendo le medesime ai profili di accertamento del reato e di irrogazione della pena, ancor più laddove si consideri che siffatta asserzione, contenuta nella nota sentenza del 2006 delle Sezioni Unite, prendeva spunto dall’assenza di contributi della dottrina sulla questione.
La violazione del dettato costituzionale sembra, dunque, al TS di Venezia che si concretizzi nella assenza di una disposizione transitoria che faccia decorre l’efficacia delle più restrittive disposizioni dalla data di vigenza della legge n.3/2019, non trovando di conseguenza applicazione con riguardo alle pene relative ai fatti commessi anteriormente.